venerdì 28 gennaio 2011

Non so niente della vita.


Foto di Arbeit Versklavt.

Non so nulla della vita. Nessun copione imparato o anche solo sfogliato di sfuggita. Gli altri attori, quelli con cui giro, li conosco per circostanza, e nei modi più imprevisti. Appena il tempo di incontrarsi, presentarsi, e si comincia ad improvvisare. Funziona di rado però. E’ per questo che sulle scene dei teatri ci mettono quelli che prima hanno letto ed appreso un testo scritto, par coeur . Meglio sapere in anticipo quel che devi dire, e che sollievo conoscere già il finale.

Anna, il tuo personaggio, lascerà il marito, sarà poi tradita dal suo amante e morirà sotto un treno. Un tragico incidente. Lo sai dal primo secondo. E allora, anche mentre ride, mentre cammina, mentre parla con gli altri, Anna ha tutto il tempo per coltivarsi dentro quell'angolo di umore che le serve per elaborare il lutto, come una riserva di angoscia per rendersi credibile agli occhi del pubblico pagante, per quella scena finale, quella in cui, dopo grave incidente, morirà.

Per Fedra non è troppo diverso; chiunque interpreti il ruolo, entra in scena, cosciente dal primo istante, che entro poche ore ucciderà il figlio e soffrirà per questo. Ne soffre da secoli, ma non riesce a smettere. L' ammazza -Ogni volta- e Giulietta, sempre col veleno in borsetta per il più futile dei motivi. Secoli di teatro, d'inganno, e ancora oggi, in giro per il mondo, è pieno di gente che recita al soggetto.

Per me che non conosco il copione, che non so niente della vita, è importante affinare l’abilità d’improvvisazione, come quei comici o certi giocolieri capaci di tenersi in bilico su una ruota che volteggia a svariati metri da terra, facendolo sembrare un gioco da ragazzi.
Drammatici e leggeri.
Non è che uno si pensi o agisca come se fosse cosciente di essere in scena, ma a volte s' intuisce, di essere finiti dentro ad un ruolo. Appena il tempo di riconoscere le coordinate, e quello è il ruolo, quella è la cosa che ti fa sentire dentro, quello permette agli altri di riconoscersi o allontanarsi da te.

Le parti da recitare sono tante.

Il monologo, quando è  interiore, te lo fai a casa, davanti allo specchio, mentre ti lavi i denti, così come davanti a un film, oppure in macchina mentre ti accendi una sigaretta che ben si accoppia con quella canzone che sembra fatta apposta per farti accendere quella sigaretta, giacché te ne ricorda altre...di sigarette, mentre ascoltavi quella canzone. “Sembra ieri” ti dici. Ecco, questo è un ruolo. Ti stai dando una posa. Sei condizionato, ma in quel momento non lo puoi sapere. Sei troppo preso dal tutto. Ti piace troppo per pensare che non è affatto, affatto originale.

Non meno diffuso, il monologo di coppia: Prendi due persone e le metti una di fronte all'altra, e una di loro comincia a parlare. Non è che gli interessi parlare con te perché sei tu, vuole solo parlare di sé per alleggerirsi qualche minuto, dunque te o chicchessia, è proprio identico. Poi se tu l’ ascolti, se ti annoi, se muori lì, sotto i suoi occhi impietosi, quasi non ci fa caso. Ti dice, si racconta enfatico e pieno di sfumature “psicologiche”. Finito il suo argomento, lo vedi che perde interesse, si, ti ascolta a limite... ma s'intuisce lontano un miglio che riflette ancora su quella cosa che s’è detto ad alta voce mezz'ora prima. Detto tutto il dicibile, arriva l'ora dei saluti e se ne va, lasciandoti coi tuoi pensieri e qualche etto dei suoi, che magari non ti toccano più di tanto, ma se sei, come si suol dire, uno sensibile, un po’ ti tocca tutto, dal gatto in calore che non sai come aiutare, al tizio che non si ferma al semaforo e che quella vecchia, a momenti l’ammazza.

L’ora è quella di punta. Il giorno è quello della festa, il corso è pieno di gente, ma il bar, il “solito” bar, è semi deserto, il che non è mai troppo male. E’ un bar particolare, un caffè incastrato in una libreria, non di certo un caffè letterario, eppure, per assurdo che possa sembrare, è più “letterario” di quell'altro, perché si dà meno pose. Lì la gente prende il caffè con un' attitudine fastidiosamente glamour, gambe incrociate, busto a tre quarti, spalla sul divano letterario e mento elevato, quasi austero. Qui c’è solo gente che prende il caffè e che in mano ha un libro, un giornale o  una tazza piena di liquido. Senza dubbio un luogo ideale, perché non si pretende troppo di più rispetto a quel che è. Il tempo di voltare gli occhi e ti prende una fitta al cuore per uno che sta li, vicino a te. Un vecchio col cappello ed un cappotto lungo fino a terra. Ha tutta la fisionomia di un tipo sensibile.

E’ più vecchio di tanti vecchi messi insieme, ed è bello da vedersi.

Sul piccolo tavolo rotondo che ha davanti, ha apparecchiato tutta una mercanzia di carte, ha anche una lente d’ingrandimento ed una penna. Con una mano tiene la lente su una specie di  grafico, con l’altra scrive parole giganti ed incomprensibili sul foglio a quadretti, e per compiere questa complicatissima operazione assume, tutto curvo sui fogli, la scomoda forma di una “C” . Ti chiedi cosa starà mai facendo. Vorresti tanto chiederlo a lui. Puoi osservarlo liberamente mentre cerchi di capire, perché lui  neanche ti vede, e quella non è una posa, ma un impegno estenuante. Chissà che cerca, viene da chiedersi. Ma chiederlo a lui è fuori questione.
Mio spazio-tuo spazio. Vietato fondere gli estremi.
E’ il tipo di cose per cui la gente vive male e sola. Giornate, mesi, anni passati a crearsi degli spazi, cioè dei muri, solo che detto così: “Crearsi i propri spazi” fa più “individuo”. Il guaio è che serve, è inevitabile o si finisce travolti dal treno. Finalmente alza gli occhi e tu lo guardi come se fosse amore. Lui sorride un po' impacciato e torna al suo lavoro.
Pensi che se invecchiassi abbastanza da somigliargli, seduta al suo posto ci staresti tu, magari coi capelli raccolti e bianchi, e le tue rughe in bella vista. Non sarebbe certo per attirare l’occhio curioso degli altri. Lo faresti perché per essere giocolieri bisogna esporsi, correndo il rischio che si rida di te, che ti si noti, e si può fare solo se ci si esercita negli anni, così che la cosa alla fine, non ti tocchi troppo. Non parlo di cose astruse, è solo teoria e tecnica della libertà, che nel momento in cui fai quel che vuoi, come e quando vuoi, smette di essere verbo e diventa reale. Una specie di utopia insomma. Il tappo della penna gli scivola dalle dita, e tu non perdi l'occasione, ti pieghi e lo raccogli. Da solo non ce la farebbe, eppure non chiederebbe aiuto. “Si figuri” rispondi, ma l’hai detto con amore, come se avessi davanti un bel maschio con cui vorresti accoppiarti a breve. “Si figuri”...tutto qui. Ecco un esempio di ruolo, un limite.

Anche io come tutti, coltivo i miei spazi, ma sarebbe più saggio coltivare insalata. Sarebbe preferibile, perché ho letto da qualche parte che il lavoro manuale aiuta la gente astratta a legarsi di più alla terra, e siccome io sono astratta, dovrei proprio coltivare insalata. Vorrei un lavoro stancante che mi facesse pensare meno a tutte le parole che non dico perché non posso, o a quelle che non dico perché non so...ho bisogno di vacanze insomma, ma le vacanze sono un lusso, e io non posso permettermi lussi, allora l'ideale è un lavoro stancante, ecco che mi serve. Il contrario di una vacanza. Essere soli, sentirsi soli, che cambia? Qual è il confine? Basta forse un cortile pieno di bipedi che ti camminano attorno per pensare, anche solo per sospettare che non sei solo? E’ sufficiente rimbalzarsi qualche verbo per poter asserire, o seriamente pensare che si sta comunicando?
“Colgo la tua ironia...” Una frase messa lì, fra una chiacchiera e l’altra. Seguono altre parole, altri argomenti, ma queste le senti che mettono radici, come quei semi che volano in aria in primavera, come quei germi che ti si attaccano nei posti più impensati. Ti si attaccano come una medusa mentre nuoti, come un fungo mentre stai per saltare dal trampolino in piscina -appena un secondo prima del salto- Uno che ti capisce, così ti lascia intuire. Se poi la coglie davvero quest’ironia, e per sfortuna capisci che è vero, accade una specie di metamorfosi che ti trasforma  nell'insalata che vorresti imparare a coltivare, e lui si ritrova, quasi senza volerlo, nel ruolo di agricoltore, che quindi ti coltiva e ti raccoglie a suo piacimento. Ogni volta che coglie la tua ironia, è come se t’innaffiasse e ti concimasse. Ogni volta che ride di quel che a te fa ridere, è come se si curasse di te. Quando ti calma se sei agitata, è come se ti riparasse da uno storico freddo polare che altrimenti ti annienterebbe, riducendoti a foglia secca.

Non so niente della vita.

L’arte del relativo. Ecco una cosa che devo imparare. Devo. Assolutamente. Credevo che l’assoluto sarebbe deceduto insieme all'odiosa adolescenza. Ci speravo tanto, ma non è successo. Non muore. Non ancora. Mi piaci quando cogli la mia ironia. E’ un modo assoluto di amarmi. Non puoi saperlo. Stai improvvisando la battuta giusta, quella che porterà all'innesto di altri dialoghi e forse, dei corpi stessi. E’ così unico quello che dici, che mi trasformo nella stupida Giulietta, solo che lei era adolescente, dunque scusabile, su di me invece, quei lunghi abiti, i capelli raccolti e quel tipo di pensieri appaiono patetici. “Ti amo” ecco il ruolo fra i più convenzionali a portata di bocca. Voglio dirlo da qualche giorno, mi nuota in testa, quasi mi strozza la gola, lo penso, provo un irresistibile desiderio di lanciare queste lettere in aria, è come se dicendolo a te lo dicessi a tutti quelli a cui non l'ho mai detto. Anni di mai detto, ora che ci penso. Mi distraggo e appena mi rilasso, appena smetto di pensarci... lo dico, se ne esce. Ne ho bisogno. Proprio io, che non si può dire che mi metta ad “amare” chiunque. A te si. Perché cogli la mia ironia. L’hai detto e l’hai fatto più di una volta. Ho le prove che non sono sola, non oggi almeno. Hai colto, e portato via. Se almeno fossi stata un fiore, una rosa rossa dai petali di velluto, sarei morta per motivi futili e belli, come l'ingenua Giulietta, ma morire da insalata, non è che il più stupido dei ruoli. Siamo a teatro. Devo sempre tenerlo a mente. Stiamo improvvisando, ed è logico che i ruoli si disegnino man mano. Conoscersi, recitare, mischiarsi in un romantico bacio “artistico” così come nel momento magico che lo precede, è necessario per questioni sceniche... il solito audience.... e poi la fine. Arriva sempre la fine, e fa sempre male. Fa così male che viene voglia di non iniziare mai niente. Mai più.
Persino un libro, quando mi piace, non solo non mi affretto a finirlo, ma rallento.  E’ estenuante, come il lavoro di quel vecchio. La noia di doversi separare da quei luoghi della mente che ho faticato tanto ad innestare al mio pensiero. Non sono una mangiatrice di pagine, non soffro di bulimia lessicale, mi piace che lo scritto sia poco ed indimenticabile, che se è troppo, è erudizione, e quella si addice meglio a chi  ce l'ha, o a chi frequenta “caffè letterari” ed ha qualcosa da dimostrare, io voglio solo capire. Quando la fine si avvicina, succede anche di leggere dieci righe, e basta fino a domani. Poi il finale, magari appena sveglia, e me lo porto addosso per tutto il giorno con una specie di nostalgia, come una tristezza, perché, chiuso il libro è come se fosse finita l’ennesima storia d’amore. Scemenza! Un libro non ti mancherebbe mai di rispetto, non è nella sua natura, eppure se anche decidessi di rileggerlo, non sarebbe più lo stesso, perché se sai già il finale, allora stai solo recitando, e io, come si è forse capito, non so recitare affatto, al massimo posso scrivere copioni, sceneggiature, corti. Si appunto. Corti. Sono fatte così le persone sensibili. Niente le tocca, e tutto le tocca. Assoluta. Affatto relativa.
Non so niente della vita.
Dove sei? Che ti è successo? Cosa è cambiato? Tutto. Niente. Siamo sempre noi. Sempre a teatro. Scorrono solo i giorni, i personaggi che siamo chiamati a interpretare si allontanano per esigenze di copione. Cambia la scena. Altri attori. Tutto daccapo. Fa male. Fa molto male. Più del necessario. E non serve sgranare il rosario di altre cose che hanno già fatto male per sentirsi meglio. Non si è mai imparato niente. Questa l’impressione che racconto nel mio prossimo ruolo, che è un lungo monologo in cui recito sola sulla scena. Pazienza. Una volta capivi la mia ironia, ora devo spiegarti quando scherzo e quando sono seria.
Non so niente della vita.
Quello che prima ti attirava ora ti allontana, quello che ti divertiva, non ti diverte più. Dunque hai smesso di cogliere la mia ironia. Ora non la capisci più, peggio, molto peggio, ora non t’interessa. E io capisco solo una cosa, solo una fra le tante possibili: cioè che non capisco nulla della vita. Non comprendo i suoi ingranaggi, le sue logiche, niente di niente.

Dov'è finito mio padre? Lo voglio sapere. E io? Che vado cercando senza posa da mattino a sera? Quanto tempo resta prima di sparire? quante volte ancora dovrò cambiare copione? Succederà un giorno d' incontrare davvero qualcuno? Riuscirò mai a vedere da vicino, anche solo per un istante, la magia dell'ingranaggio? Per quello bisogna diventare madri, e io non lo sono. Non so niente dunque. So solo che ti perdo, che fa male e che non posso farci niente, perché ti porti via un po' di me, un po' della mia speranza.

Mi calo nelle vesti dell’attore allora, ritorno al mio ruolo in scena, e mi aspetto che da qualche parte, qualcuno abbassi le luci, e che in controluce, fra i pulviscoli di polvere enfatizzata dal colore tenue che si è calato sulla scena, dove io sto sola e in posa, s’intuisca un profilo teso e drammatico, artisticamente bello se si può. Che almeno scenda un sipario, che qualcuno applauda l’inevitabile e artistico finale in cambio di un generoso inchino, ma non si muove una mosca. Silenzio. Solo vento sul prato e foglie d’insalata che mi osservano con la faccia inespressiva che è propria degli stupidi ortaggi.

Luisa 

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